Col nostro sangue hanno dipinto il cielo, Eleonora C. Caruso



La pelle che prima era solo la pelle e che adesso era lo spazio vuoto lasciato da quelle dita sulla sua pelle.


È andata così. Ho letto un post, questo, e poi ne ho letto un altro, della Leggivendola, infine ho scaricato il racconto di cui quei post parlavano: Col nostro sangue hanno dipinto il cielo, di Eleonora C.Caruso, classe 1986. Poi ho lavoricchiato un po', sono stata lontana dal computer, è passata Pasqua e pure Pasquetta, ho mangiato tonnellate di cioccolata di tutti i tipi e poi finalmente, ieri, sono stata davanti al computer un tempo sufficiente per leggerlo, quel racconto che avevo scaricato settimane e settimane fa.

Bello.


In mezzo alla strada c’era un vecchio che puzzava e aveva la barba come il catrame, “con le nostre ossa costruiscono i palazzi” urlava “con il nostro sangue hanno dipinto il cielo”.

Non ho letto molte storie ambientate in Giappone, anzi, pensandoci, può darsi che io abbia letto soltanto Norwegian Wood di Murakami. Al contrario coi cartoni giapponesi ci sono cresciuta, come tutti credo, così tanto che, quando in quei cartoni arrivava il momento dei mondiali di calcio o delle olimpiadi, io tifavo la nazionale nipponica a occhi chiusi, senza nemmeno chiedermi che fine avesse fatto la squadra che sarebbe dovuta essere la mia. Chi se ne fregava dell'Italia se i giapponesi avevano Mila e Holly e Benji. Ché poi, mi chiedo oggi, che cosa avevano Mila, Shiro, Holly e Benji di giapponese nella loro fisionomia? Proprio un bel niente!



L'idea che mi ero costruita da piccola del Paese del Sol Levante era quella di un posto con le partite lunghissime e i batticuori e la magia e tanto sport e cose belle.

Poi è arrivata la scuola e l'impero e le guerre, infine Hiroshima e Nagasaki. Il Giappone era lo Stato che avevo scelto di portare agli esami di terza media, il Paese in cui avevamo giurato di andare, un giorno, da grandi, io e la mia migliore amica dell'epoca. L'idea che avevo, dopo quel po' di storia nipponica che eravamo arrivati a studiare, era quella di un popolo fiero e combattente, un popolo che aveva saputo ricostruire dalla distruzione, che aveva fatto del proprio Paese un Paese tecnologico e all'avanguardia.

Poi ho letto Norwegian Wood e adesso questo racconto.

In conclusione non ho idea di che cosa sia questo Giappone, così lontano da noi. Non so se i suicidi siano così frequenti e se ci sia davvero questo dolore soffocato in sottofondo. Può darsi sia stata io sfortunata nel leggere due cose ambientate lì e tristissime, può darsi che ci siano altri milioni di storie romantiche, a lieto fine e divertenti, ma io mi sia incontrata solo con quelle disgraziate. Può essere, però ormai l'immagine che avevo di un popolo isolato, ma felice, è andata in frantumi.



«Toru, Tokyo è un meccanismo che si autoalimenta. Crea desideri enormi che non vengono appagati, e questo genera disperazione. Ed è proprio la disperazione che spinge la gente a desiderare. Il mondo si


regge su questo, sull’alternanza di dolore e speranza. Io ne sono solo una piccola parte. Do a donne stupide e insignificanti la speranza che qualcuno al mio livello potrà amarle. Mi sembra un bel gesto, a essere


sincero. Una volta mi hai detto che adori Tokyo, ti ricordi? Allora abbi


il coraggio di guardarla in faccia.»






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Tornando al racconto, - odio quando inizio a scarabocchiare perdendo il filo del discorso - mi è piaciuto. Sono una lettrice da storie tristi, io. E Shun, già vecchio a venticinque anni, senza alcuna speranza di poter riscattare la propria vita da host, Shun che si chiama Shutaro, che ha due ulcere, è vergine e non ha mai visto Parigi, è un personaggio interessante, che mi ha incuriosito sempre di più, capitolo dopo capitolo. La sua solitudine, quel suo mestiere per cui viene pagato per fingere amore fingendo di essere amato, il suo malessere e l'assenza di qualsiasi ambizione e di qualsiasi possibilità che sia diversa da quella di fare sesso con un uomo ricco e molto più vecchio di lui in grado di mantenerlo - il tutto quando non ha ancora venticinque anni, è bene ricordarlo - fanno di Shun uno dei protagonisti più tristi che abbia mai conosciuto. E io gli ho voluto subito bene.

Ho previsto per lui un finale diverso, oltre l'ultima pagina. Ho sognato per lui una rinascita, sotto quella Tour Eiffel, perché immagino che Parigi sia davvero bella come dicono, anche se non ci sono mai stata. E in ogni caso mi piacerebbe tanto che Shun in terra francese fosse più amato di quanto lo sia mai stato a Tokyo. Di certo nessuno lo considererebbe vecchio, alla sua età. Ecco, mi piace immaginare che ci sia un futuro migliore ad attendere Shun, perché sono sì un'amante di storie tristi, ma amo anche i lieto fine.


Non che fosse andata male, in fondo, non aveva perso niente né imparato niente. La maggior parte delle storie finisce così.

"Con il nostro sangue hanno dipinto il cielo" è stato pubblicato da Speechless Books e si può scaricare gratuitamente qui. Vi invito a farlo.

Buona lettura!

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• Altre frasi che ho sottolineato: 


Certe cose non le puoi non fare solo perché in teoria puoi non farle…



«Allora continuo a non capire, per cosa ti pagano?»

«Soltanto per parlare. Corteggiarle, o ascoltarle, o consolarle... essere gentile, insomma. Le cose che non si aspettano dagli altri uomini. Pagano per sentirsi amate, e io fingo di amarle.»

[...] «Non è triste fingere di amare qualcuno?»

«L’amore è un prodotto come un altro. Se fosse una cosa seria non lo userebbero per vendere i CD.»



Capì che voleva baciarlo, che lui voleva essere baciato, che forse, in fondo, tanto valeva baciarsi. Ma nel tempo di deciderlo il momento era passato, e Toru si era allontanato riluttante.