12 anni schiavo, Solomon Northup // E poi il film







«Poiché la mia è la storia di un uomo nato in libertà, che poté godere dei benefici di tale condizione per trent'anni in uno Stato libero e che poi fu rapito e venduto come schiavo e tale rimase fino al felice salvataggio avvenuto nel mese di gennaio del 1853, dopo dodici anni di cattività, mi è stato suggerito che queste mie vicissitudini potrebbero rivelarsi molto interessanti per il grande pubblico






Inizia così l'autobiografia dei dodici anni di schiavitù di Solomon Northup, negro nato libero nello Stato di New York nel 1807 e divenuto poi schiavo nel 1841.








Da quando è uscita al cinema la pellicola ispirata alla sua storia (Oscar come Miglior film quest'anno) non vedevo l'ora di guardarla, però prima volevo leggere il libro, comprato ormai mesi fa. Devo essere sincera: mi aspettavo molto di più, invece mi sono trovata tra le mani nient'altro che un'autobiografia, genere che ha reso piuttosto noiosa la lettura, purtroppo. Ho faticato molto per arrivare alla fine, a saperlo mi sarei dedicata subito al film, senza passare per il libro. Questo è quello che consiglio di fare a chi non ha sperimentato ancora né l'uno né l'altro, premettendo che comunque, come al solito, il film si discosta in alcuni tratti dalla storia vera che Solomon Northup, divenuto schiavo Platt, ci ha dolorosamente raccontato nella sua straziante autobiografia.



Era un negro Solomon, un negro padre di famiglia, nato e cresciuto libero. Era un negro onesto, alfabetizzato, suonatore di violino. Quando con l'inganno viene fatto prigioniero è costretto a fingere di non ricordare più chi è stato fino a quel momento. Rinuncia a spiegare la sua storia, per evitare frustate massacranti. Diventa un negro all'apparenza come gli altri, come quelli che non sanno leggere, come quelli nati in cattività e venuti su come bestie. Tiene Solomon chiuso dentro di sé, per gli altri è sempre e solo Platt. Suona il violino, questo sì, ma dichiara sempre di essere un analfabeta, passa le sue giornate a lavorare il cotone, viene frustato senza alcun motivo, è costretto dal padrone a frustare gli altri suoi compagni di piantagione, rischia di essere ucciso più volte dai padroni Tibeats e Epps, fugge, piange, si dispera, sognando sempre di poter riabbracciare la sua famiglia.



La schiavitù, come l'Olocausto, è uno di quei temi che mi lascia sempre miliardi di brividi addosso, di domande retoriche stupide e banali, sempre, in ogni suo lato, in ogni sua sfaccettatura. Quella racchiusa in questo libro (e film) non è la storia della schiavitù, è bene saperlo. Questa è semplicemente la storia di Solomon e della schiavitù, per come l'ha vissuta lui.



Man mano che scrivo questi pensieri mi accorgo di cambiare idea: forse anche il libro merita, come il film, di essere letto, anche se è un po' noioso.

Quelle sono le parole di Solomon, proprio le sue. È lui che ha sentito sulla sua schiena lo schiocco della frusta, lui che ha visto Patsey più volte umiliata, picchiata, violentata, lui che ha visto Eliza venir privata dei propri bambini, lui che ha vissuto per 12 anni lontano dalla sua famiglia, prigioniero di padroni diversi, più o meno crudeli, ma comunque padroni. È Solomon che per dodici anni ha saputo attendere il momento giusto per riavere indietro la sua libertà perduta, è lui che ha tentato di fuggire temendo più la furia dell'uomo bianco che i serpenti e i coccodrilli delle paludi. Lui. Non era uno scrittore Solomon, perciò non lo si può incolpare di aver scritto un'autobiografia ripetitiva e descrittiva, solo a tratti piena d'azione. D'altra parte che azione potevo aspettarmi da un uomo restato schiavo per dodici, lunghissimi, anni? È la sua storia, quella vera, senza effetti speciali o inquadrature meravigliose. Una storia vera, drammatica ai nostri occhi, eppure privilegiata agli occhi di tutti quei negri come lui, che schiavi sono nati e schiavi sono morti.







La briscola in cinque, frasi [Marco Malvaldi]





Capita, talvolta, quando sei bambino piccolo, che i bimbi più grandi ti dicano di andare con loro a giocare: da soli, senza che le mamme ce li costringano. È come essere ammessi a un rito, qualsiasi puttanata facciate ti diverti tantissimo, e ti resta una giornata da ricordare. 





Dunque, le ciabatte. Dove sono le ciabatte? Ciabattine belleee... Oh, menomale. Madonna che saporaccio in bocca, mi sembra d'avere mangiato un chilo di polvere. Caffè, ora. Meno male che c'è il caffè. Ma chi sarà stato il ganzo che ha inventato il caffè? Dev'essere cugino di quel genio che ha inventato il letto. Premio Nobel a tutti e due, altro che Dario Fo. A loro, e a quello che ha inventato la Nutella. In chiesa, al posto della statua di San Gaspare. Perlomeno si vedrebbe un po' più di devozione sincera. 





Madonna come sono muscolosi. Palestrati, s'intende. Nulla di speciale. Migliaia e migliaia di ripetute e il bicipite si gonfia, ma è tutta una finta. Pettorali alla fecola di patate, che se uno ci tira un cazzotto glieli sposta sulla schiena e gli ci fa la gobba. Sì, però intanto loro il fisico ce l'hanno e te sono due anni che ti dovresti iscrivere in palestra, vero? Solo che ora fa troppo caldo, poi d'autunno ricomincia il campionato, a gennaio già mi tocca stare un mese a digiuno per riprendermi da Natale e vuoi che vada in palestra? Così ci tiro il calzino e non se ne parla più? E poi febbraio è un mese che non conta, a marzo arriva primavera e io non ho voglia di fare veramente una sega, e poi è di nuovo estate e te ti ritrovi col tuo solito, abituale fisico a gruccia. D'altronde hai studiato tanto...





Io sono basso perché il peso der mi' cervello è una vita che mi stiaccia.





Sa, quando a Newton chiedevano come facesse a risolvere dei problemi così complicati come quelli che affrontava lui rispondeva che era facile, bastava pensarci continuamente. Io non sono Newton, questo di sicuro... - pausa per versarsi un po' di tè ma se non capisco qualcosa non c'è verso di liberarmene, mi ci assillo tutto il giorno e tutti i giorni finché non lo capisco.


- E se non lo capisci?


- Ah, non c'è motivo di preoccuparsi. Prima o poi mi viene in mente un problema nuovo, e quello vecchio me lo dimentico.





Allora, se fossimo in un giallo di Agatha Christie uno ucciderebbe solo per soldi, oppure la prima moglie che credeva morta e allora si è risposato, la moglie è sortita fuori e allora verga! La chiudi in uno stanzino con un coccodrillo e sei a posto. Nei gialli di Nero Wolfe invece sono sempre ricattatori fatti fuori da vittime vessate, padri che impediscono matrimoni di figlie, così via. Si uccide sempre di sponda, per ottenere qualcosa. Non è che uccidi uno perché lo odi, rimuovi un ostacolo. Nei gialli. Invece, nella vita reale, quasi sempre ammazzi la sòcera perché sono vent'anni che ti sbrindella i coglioni. 




Sempre di domenica #34









1 - Le agende del 2015, un articolo di Paolo Nori che è uscito su Libero e che io ho letto sul suo blog. Ne cito una parte, l'inizio:

Sono un po’ di giorni che mi gira in testa una cosa che diceva un mio amico che diceva che lui c’eran delle volte, ma tante, che lui si aspettava chissà che cosa, invece succedeva chissà niente. E l’altro giorno, ero in libreria, ero finito davanti alla sezione dove vendevan le agende del 2015, mi era venuta una gran voglia di avere un’agenda del 2015, anche se eravamo solo nell’ottobre del 2014 e alla fine la voglia era così grande che dopo l’avevo comprata e dopo averla comprata m’era venuta voglia che cominciasse il 2015 e mi ero detto che io, rispetto al 2015, ero anch’io come quel mio amico là che mi aspettavo che succedesse chissà che cosa invece probabilmente sarebbe successo chissà niente.

2- Window Silhouettes Illusions, l'arte di Pejac.
3- I film riprodotti coi Lego.
4- People Playing With Clouds And Forced Perspective. Ancora cielo e ancora giochi di prospettiva.
5- Le piccole opere d’arte di Alex Solis.


La briscola in cinque, Marco Malvaldi


Nonostante io legga ormai da tanto tempo il blog della lettrice rampante e nonostante lei sia una superfan di Marco Malvaldi, io non mi ero ancora decisa a leggere qualcosa di suo, soprattutto perché i gialli non sono il mio genere preferito. Non posso nemmeno dire questo, in fondo, semplicemente perché di gialli non ne ho mai letti.

Perciò eccomi qui, adesso, con due novità: il mio primo Malvaldi e il mio primo (almeno credo) giallo.





La briscola in cinque è il libro che apre la serie del BarLume, con la Toscana sullo sfondo e un barista, Massimo, che gioca a fare l'investigatore e, almeno in questo caso, ci riesce bene. Il caso da risolvere sembra essere piuttosto semplice, probabilmente se fossi stata un po' più allenata col genere avrei capito presto il colpevole, ma non è successo.

Una ragazza, Alina, è stata uccisa, il suo corpo viene ritrovato da un ubriaco in un cassonetto, per una casualità il barrista si trova coinvolto in questa scoperta e assiste al momento in cui la polizia, guidata da un imbranato commisario Fusco, rimuove il cadavere e studia la scena del crimine.

Ho paura ad andare avanti con la storia, non vorrei svelare l'assassino inavvertitamente. Meglio che mi fermi qui.



La trama, dicevo, è semplice, anche un po' troppo per i miei gusti. Mi è piaciuto il modo in cui è stata descritta la tipica atmosfera da bar che chiunque vive in un piccolo centro sicuramente conosce bene. Io sì, perciò ho apprezzato.

Essendo vicina alla Toscana non ho nemmeno faticato a star dietro al dialetto e all'accento dei vecchietti del BarLume, anche se, devo ammettere, preferisco ascoltare il toscano, piuttosto che leggerlo.



Non so dire se io e Malvaldi diventeremo amici o se un giorno diventerò un'appassionata lettrice di gialli anche più complicati, non so se mi divertirò mai nel cercare di capire un colpevole, però penso di poter dire che, pur non avendomi particolarmente entusiasmata, questa storia mi ha fatto venire voglia di leggere anche il seguito.

Certo di briscola in cinque, gioco in cui sono una vera schiappa come in tutti quelli dove si deve bluffare, si parla poco, forse un po' troppo per i miei gusti.



Il desiderio di essere come tutti, frasi [Francesco Piccolo]






I libri - le storie che ho amato durante la mia vita - hanno avuto a che fare con me sia perché fondavano un nuovo modo di guardare il mondo, sia perché chiarivano almeno un po' quello che avevo compreso (o non avevo compreso) fino a quel momento.





Il 22 giugno 1974, al settantottesimo minuto di una partita di calcio, sono diventato comunista.





Mio padre penserà sempre due cose ossessivamente: una, che se viene veramente il comunismo si scoprirà che in fondo nessuno è comunista; e l'altra, più pericolosa e più martellante nei miei confronti, che il comunismo è un sistema di divisione continua, meticolosa e ossessiva, di qualsiasi cosa si venga in possesso, volontariamente o involontariamente. Ed è per questo sistema morboso della divisione che pensa che se viene il comunismo poi nessuno vuole essere comunista. [...] 


Dirà: fai il comunista - non ce l'avrà con me, quando parlerà con il tu non ce l'avrà mai con me. Anche in questo sarà strano: quando parlerà di altri comunisti, mi guarderà in faccia e dirà: fai il comunista e tieni due macchine, perché non ne dai una a un operaio? - e so che non ce l'ha con me, perché io due macchine non ce le ho, nemmeno una se è per questo, e perciò andrò a chiedergli le chiavi della macchina e lui dirà che faccio il comunista con le chiavi della macchina di papà. Invece, quando ce l'avrà con me, guarderà nel vuoto, come se stesse parlando di me a un altro, e dirà: fa il comunista, lui, e poi mi viene a chiedere le chiavi della macchina. Per mio padre, in modo ossessivo, e per tutta la vita, se uno è comunista non potrà mai chiedere le chiavi della macchina. E qualora dovesse avere una macchina, poi, il bollo lo dovrà pagare Berlinguer. Se ne avrà due, dovrà darne una a un operaio. [...] 


Per il resto del tempo, per tutta la vita, mio padre continuerà a guardarmi fisso con le braccia incrociate. E aspetterà. Aspetterà che viene veramente il comunismo per vedere se io sono davvero comunista. 


Aspetterà, tra l'altro, inutilmente.





L'unità dei partiti di sinistra non è sufficiente, se si contrappone a essa un'alleanza che va dal centro fino all'estrema destra. Il problema in Italia è sempre stato questo: evitare la saldatura tra il centro e la destra, e «riuscire invece a spostare le forze sociali e politiche che si situano al centro su posizioni coerentemente democratiche». Berlinguer dice con molta chiarezza che una garanzia di democrazia non esisterebbe nemmeno se la sinistra unita raggiungesse il cinquantuno per cento dei voti. «Ecco perché noi parliamo non di una "alternativa di sinistra", ma di una "alternativa democratica" e cioè della prospettiva politica di una collaborazione e di una intesa delle forze popolari di ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro orientamento democratico».





Le condizioni, quando sono diventato comunista, erano queste. Non che ne fossi consapevole, o mi potessi arrischiare a leggere Rinascita; ma l'aria che cominciai a respirare aveva due caratteristiche: il dialogo (il compromesso), e il progresso (contro i conservatori, contro i reazionari). In quei tre articoli, che fondavano la politica di quegli anni, la novità era il tentativo di allearsi con la Democrazia cristiana favorendone la parte progressista, per diventare una doppia forza che avrebbe governato l'Italia per molti anni (con la speranza, successiva, di conquistare la fiducia degli italiani e proseguire, in futuro, da soli); la base su cui si proponeva questa novità era la necessità di trasformare il Paese, di cambiarlo, di spingerlo in avanti - in opposizione al freno reazionario che attraversava da sempre l'Italia. Il compromesso storico era la soluzione per alimentare in modo concreto l'idea del progresso, per combattere in modo concreto gli intenti reazionari. Era quindi un'aria palpabile e viva.





Se fossi stato costretto a sintetizzare la decisione di essere diventato comunista - quando ne sono diventato consapevole, negli anni successivi al gol di Sparwasser -avrei detto così: mio padre vuole che il mondo dove viviamo resti com'è, sempre uguale; io voglio cambiarlo, farlo diventare migliore.





Mentre Leone e la Cederna litigavano, mentre zio Nino e zia Rosa litigavano, Berlinguer e Moro stavano portando a compimento il compromesso storico. Dopo un governo presieduto da Andreotti e chiamato di "non sfiducia" (i partiti di opposizione si astenevano dal voto in aula), il presidente del Consiglio si era dimesso, e adesso, dopo   lunghe trattative, si stava per compiere il cammino che Berlinguer aveva intrapreso dai fatti del Cile in poi. Il suo interlocutore era stato sempre Aldo Moro, in questo momento presidente della Democrazia cristiana e convinto sostenitore dell'alleanza con i comunisti. In pratica, da quando alle elezioni del 1976 il Pci si era avvicinato così tanto alla Dc, la soluzione di Moro per continuare a fare in modo che la Democrazia cristiana conservasse il potere in Italia, era non contrapporsi più al Pci, rischiando un giorno non soltanto di perdere le elezioni, ma di lasciare campo libero in Italia a chissà quale incognita. Moro ragionava cosi: la clausola "ad excludendum" deresponsabilizza il Partito comunista; non solo: gli dà la possibilità di giudicare di continuo l'operato dei partiti di governo, come se vivesse di rendita sugli errori degli altri; ed era questo, secondo lui, ciò che stava succedendo, e il motivo per cui i voti al Pci si allargavano ogni volta oltre il suo bacino. L'esclusione a priori del Pci lo rendeva un partito populista, senza responsabilità - è questo che Moro spiega in un incontro difficilissimo e decisivo con i deputati e i senatori della Democrazia cristiana. Li ha riuniti con l'intento ultimo di neutralizzare le forti resistenze delle altre correnti di partito all'idea di un cammino condiviso con i comunisti. Il suo discorso politico è nitido: non è una soluzione estrosa, dice, ma necessaria. Se noi ci alleiamo con il Partito comunista, possiamo conservare il potere e il controllo sul Paese per molti altri decenni. E solo con un'alleanza governativa terremo a bada i nostri antagonisti. Quindi fa intravedere al suo partito un possibile scenario apocalittico (la Democrazia cristiana che viene estromessa dal potere, e per giunta dai comunisti) oppure un possibile scenario radioso (la Democrazia cristiana, alleandosi con il suo maggiore avversario, non lascerà il potere mai più). Del resto, Moro aveva detto una volta: «La Democrazia cristiana è come un'ameba che tende sempre ad appoggiarsi a quello con cui sta in quel momento». Era   arrivato il tempo di appoggiarsi a un partito con energia viva, intatta; e ormai grande come il suo.




Poi per fortuna, vennero in soccorso tutti. Vennero in soccorso anche - subito, devo dire, ma giusto in tempo - di quel minuscolo pensiero che stava per fare capolino nella mia testa, e che solo grazie all'entità della tragedia e al coinvolgimento serio e non polemico di mio padre, ero riuscito per ora a respingere: e cioè, che se il comunismo stava per arrivare veramente, come diceva lui, e stava per arrivare in questo modo, allora davvero non stavo già più da quella parte, ma stavo insieme a mio padre, e a quasi tutti gli altri. In questo momento, pur avendo creduto di essere diverso, il mio unico desiderio era di essere come tutti.  Come mio padre e mia madre, come i vicini, come quelli che parlavano al telegiornale. Come zio Nino. E come zia Rosa.






Oltretutto, il legame con Berlinguer si era fatto più intimo, perché avevo visto i suoi occhi intristirsi e la solitudine di noi comunisti - una solitudine nei confronti del mondo - farsi più evidente. In qualche modo, Berlinguer mi commuoveva perché mostrava orgoglio e forza, energia viva che ci spingeva a pensare ancora che un giorno sarebbe finalmente accaduto chissà che - ma la verità era che l'occasione era andata perduta, e vivevamo una specie di vita postuma, in cui non bisognava dirlo e nemmeno pensarlo che l'occasione era andata perduta.





Il compromesso storico era nato ufficialmente nei giorni del colera, e moriva ufficialmente nei giorni del terremoto. Ma solo ufficialmente, perché in tutta evidenza era morto prima: insieme ad Aldo Moro.





Senza possibile scarto di errore, posso dire che il pomeriggio del 13 giugno, nel momento preciso in cui ho alzato il pugno da solo nella camera da letto dei miei genitori, ho smesso di essere giovane. Avevo vent'anni esatti, e sono diventato adulto, in un modo aggrovigliato. Sia chiaro: ho schiacciato il groviglio sotto il peso delle convinzioni, ma il groviglio si era ormai formato in modo ineliminabile, ha atteso di essere compreso in seguito e poi in qualche modo risolto - e chissà se adesso, mentre scrivo dopo tanti anni, è stato davvero risolto. Da quel pomeriggio, la politica è diventata un elemento quotidiano della mia vita, me ne sono occupato come ci si occupa dei figli, perché li ami e perché lo devi fare. Non sono riuscito più a percepire in me una vita privata, se non legata in modo indissolubile a ciò che accadeva nel Paese; e non sono mai più tornato indietro. E come se quel pomeriggio si fossero interrotte le storie della mia formazione. Non sarei riuscito più a delimitare il campo, a produrre esperienze personali che non fossero in relazione con un sentimento più generale, quasi sempre malinconico. Come se avessi avuto sempre qualcos'altro da pensare accanto agli studi, poi al lavoro, agli innamoramenti, ai litigi in famiglia, alle feste natalizie - qualcosa che voleva dare un senso ulteriore a quello che facevo nella mia città, con i miei amici. Ma che rendeva alla fine tutto insoddisfacente. La sensazione era che la vita si era ristretta, diventando adulti. I fatti diminuivano e aumentavano i ragionamenti sui fatti. La sensazione era anche che la vita diventava più costante, scandita dall'abitudine. E le novità erano fuggevoli, oltre che rare. Come se tutto dovesse svolgersi con più precisione, meno sorpresa.





Qualcosa se n'era andato via per sempre con Berlinguer. Le cose accadevano intorno a me, le valutavo; e le valutavo secondo le nuove regole: non dovevo compromettermi con quello che non mi piaceva, dovevo combattere - o meglio, lamentarmi - del mondo com'era diventato. Ripetevo la parola che condiva ogni discorso dei comunisti che si stavano trasformando in persone più genericamente di sinistra perché il mondo cambiava: ormai, dicevamo. Come se tutto il senso delle cose fosse (ormai) alle spalle.



In Vecchie carte da gioco Rosellina Balbi affronta la questione di cosa significhi essere di sinistra. E soprattutto quella che definisce «la tragedia dell'eguaglianza». Conclude l'articolo così, sotto il mio evidenziatore giallo ben calcato: «Personalmente, sono ancora e sempre del parere che la distinzione da fare sia quella tra l'eguaglianza e il diritto all'eguaglianza: la prima non esiste (per fortuna): ciascuno di noi deve fare la sua corsa e arrivare dove potrà, saprà e vorrà. Altra cosa è la parità delle condizioni di partenza: è questo che la sinistra deve ottenere, così come deve continuare a battersi perché la innegabile diversità tra gli uomini non diventi pretesto per la discriminazione e il sopruso dei forti nei confronti dei deboli».



Dall'entrata mancata nel governo e dal rapimento di Moro, nasce un'idea di purezza - interpretata come un destino - che non morirà più. Quello che Moro aveva temuto, si verifica alla lettera: il Pci diventa interlocutore esterno della realtà. Ma quello che Moro indicava come un pericoloso punto di forza, diventa una condanna alla marginalità, alla sconfitta.

E qui che sta il grande cambiamento: della vittoria non importava più nulla; bisognava soltanto segnare una volta e per sempre una linea di demarcazione, un'idea definitiva di diversità; bisognava sfilarsi dalla vita pubblica reale e rappresentare un'alternativa astratta, pulita, arroccata. Un'alternativa pura.

Da quel momento in poi, ogni sconfitta politica diventa un rafforzativo delle proprie idee. Una conferma che il mondo è corrotto e che il progresso è malato. Una conferma, quindi, che le persone giuste e i pensieri giusti sono minoranza, fanno parte di un mondo altro, che non comunica più con il Paese - perché il resto del Paese, impuro e corrotto, si è perduto.



Adesso Bertinotti questo potere ce l'ha (grazie a me) e se lo sta prendendo tutto. Sta facendo ciò che desidero con tutte le forze che non faccia, ma sono io che gli ho dato facoltà di farlo. [...]

Il governo perde per un solo voto, 313 no contro 312 si, e Prodi va a rassegnare le sue dimissioni. [...]

D'Alema ottiene anche altri due risultati inconfutabili: l'idea che il centrosinistra, pur di restare al potere, è disposto ad allearsi con chiunque; e l'idea che in tempi di bipolarismo di fatto, quando un governo perde la fiducia dei partiti grazie ai quali ha conquistato la maggioranza, si dovrebbe tornare a votare.



Con questi criteri, siamo diventati la parte più reazionaria del Paese, nonostante ci fossimo definiti moderni, oltre che civili. In pratica, abbiamo cominciato a fare resistenza al malcostume, alla degenerazione, e pian piano la resistenza è diventata la nostra caratteristica principale, che è tracimata anche nel costume, in ogni forma di cambiamento, di accadimento. Abbiamo cominciato perfino a usare la parola: resistere - che è diventata senso di estraneità a tutto. Diamo l'impressione, al resto del Paese, di giudicarlo male qualsiasi cosa provi a fare; di essere scandalizzati, a volte inorriditi.

A noi della sinistra italiana, nella sostanza, non piacciono gli italiani che non fanno parte della sinistra italiana.

Non li amiamo. Sentiamo di essere un'oasi abitata dai migliori, nel mezzo di un Paese estraneo. Di conseguenza sentiamo di non avere nessuna responsabilità. Se l'essere umano di sinistra sentisse una correità, non penserebbe di voler andare a vivere in un altro Paese, più degno di averlo come cittadino. Però, a questo Paese che non ci piace, che non possiamo amare, del quale non sentiamo di far parte, e che osserviamo inorriditi ed estranei, noi della sinistra italiana a ogni elezione, siamo costretti a chiedere il voto. Vogliamo, cioè, che quella parte di Paese che disprezziamo, si affidi alle nostre cure. Ciò che puntualmente non avviene, proprio perché il resto del Paese sente questo senso di estraneità. E poiché non avviene, noi della sinistra italiana ci indigniamo di più, ci estraniamo di più e riteniamo di essere ancora meno responsabili di questo Paese di cui non sentiamo di far parte.



All'improvviso, mi sembrava che avere quella fragilità paradossale che attribuiamo a chiunque abbia potere e quindi è obbligato a fare - fragilità dal punto di vista etico, dal punto di vista delle contraddizioni, della distanza tra le promesse e la loro fattibilità - fosse infinitamente meglio che avere quella forza di chi è senza responsabilità, e il suo obiettivo è proprio quello di attraversare l'intera vita senza prendersi neanche una responsabilità attiva, e così appare alla fine come colui che non ha mai sbagliato: un Giusto, appunto.



Ho capito che piegarsi era infinitamente più virtuoso e utile che non piegarsi. Ho capito che la testardaggine di non tradire se stessi (l'etica dei principi) era in contraddizione con la necessità di non tradire milioni di persone (l'etica della responsabilità).



I libri che Elena mi assegnava erano testi fondamentali; ma oltre a insegnare ciò che insegnavano, mi davano un messaggio di secondo grado, troppo a lungo sottovalutato: ciò che leggevo, su cui mi formavo, confermava ossessivamente il mio pensiero. Non lo metteva in discussione, non lo rendeva problematico, ma facendolo crescere mi rassicurava ogni giorno di essere sempre e soltanto dalla parte della ragione. Questa idea del pensiero confermativo è, in seguito, in qualche modo esplosa, perché ha formato una classe intellettuale ampia che legge giornali confermativi e scrive su quei giornali ragionamenti confermativi. Tutto ciò, anno dopo anno, rende impermeabili al confronto, alla curiosità per gli altri, per le vite diverse; e rende sempre più sicuri di ciò che si pensa, di come si vive, delle regole che ci si è dati.



Di conseguenza, il campo dei nostri desideri, mentre viene soddisfatto di continuo, si restringe; di conseguenza, ci sembrerà che nel mondo c'è soltanto gente che la pensa come noi.



Se ho ritenuto di poter mettere in campo una disonestà, è stato perché non ritenevo degne di onestà quelle persone, non le ritenevo mie pari. Poiché erano fasciste, ero autorizzato a essere disonesto con loro. Era questa posizione che mi metteva a disagio, quando me ne sono reso conto. Ma è la posizione che abbiamo avuto tutti, per venti anni, con il mondo che non ci piaceva.



Avevo partecipato anch'io, come tutti, in qualche modo, alla costruzione dell'Italia così come la vedo, sia avendo ridotto il senso della tragedia, sia con lo strumento della superficialità, sia per le continue assenze, sia per aver goduto di ogni cosa.



In questi venti anni di Berlusconi, sono stato più felice che infelice. Non sono stato infelice a causa di Berlinguer, non sono stato felice a causa di Berlusconi. Anzi, molti dei legami tra vita privata e vita pubblica hanno fatto in modo che Berlinguer rendesse meno infelice la mia giovinezza, e Berlusconi rendesse meno felice l'età adulta. Però si può essere infelici nonostante si creda in qualcosa, e si può essere felici nonostante si detesti qualcosa. [...]



Con il compromesso storico, Berlinguer aveva deciso di occuparsi di tutti gli italiani, anche quelli molto diversi dai comunisti. Con l'alternativa democratica, aveva scelto di occuparsi soltanto dei comunisti, di dividere il campo tra noi e gli altri, tra i giusti e gli ingiusti. Da questa divisione è scaturita tutta la storia negativa della sinistra italiana nei decenni successivi.



Noi pensiamo sempre che c'è stato un passato migliore, in cui le persone si occupavano, tutte, di questioni importanti. Pensiamo che siano i nostri tempi a essere superficiali, perduti. È questa certezza che ha reso saldo il nostro istinto reazionario, in qualsiasi spazio di vita. Era meglio prima.



Quelli che decidono di andarsene da questo Paese, o semplicemente dicono per tutta la vita di volerlo fare, è perché si vogliono salvare.

Io invece resto qui. Perché non mi voglio salvare.



Between lenses // Mornings [Ottobre]




Between lenses è una rubrica ideata dal blog Of trees and hues.





Il tema del mese di ottobre è mornings, per rappresentarlo ho scelto una foto di una mattina di novembre dell'anno scorso, una di quelle mattine freddissime, in cui è impossibile raccogliere le olive senza guanti, senza cappuccio, senza maglietta-camicia-maglione-gilet-giacca, una di quelle mattine in cui neanche mi muovo per quante cose ho addosso. Mi piacciono le mattine fredde, svegliarmi e riaccendere per un minuto lo scaldasonno, poi alzarmi dal letto, aprire la persiana e trovare solo il buio e l'aria fresca dell'inverno. Quelle mattine da brivido, quelle in cui nascondi anche il naso sotto la sciarpa, quelle che per un istante, uno soltanto, fanno perfino rimpiangere un pochino l'estate. Quelle lì. Quelle sono le mie preferite. Anche perché la natura regala ricami stupendi.




Se anche voi volete partecipare a questa challenge fotografica, trovate tutte le informazioni su come fare qui.




Il desiderio di essere come tutti, Francesco Piccolo


C'erano una volta i comunisti, c'erano una volta i democristiani, c'erano una volta Aldo Moro ed Enrico Berlinguer, c'era una volta il Pci, c'erano una volta i pugni alzati, c'erano una volta le idee, la passione politica, l'etica della responsabilità.

E poi c'era una volta Francesco Piccolo, che è piccolo davvero quando davanti a una partita di calcio tra Germania dell'Est e Germania dell'Ovest, nell'attimo di un goal insperato per i più deboli, sulla carta perdenti, scopre di essere diventato comunista, alla faccia del padre, di tutt'altra idea.


Era il 1974, quarant'anni fa. 


In questo libro, vincitore del Premio Strega, Piccolo ricorda le tappe politiche della sua vita, quelle che gli hanno dato consapevolezze, che l'hanno fatto maturare, quelle che lo hanno portato a essere l'uomo che è: un mix di sinistra (non ha mai smesso di esserlo), di desiderio di essere come tutti, di una sana superficialità che gli è stata insegnata dalla moglie (che nel libro chiama Chesaràmai per questo)  e che gli ha permesso di vivere tutto sommato bene, felicemente, il ventennio berlusconiano.




La grafica della copertina ricorda il TUTTI che apriva L'Unità nel giorno dei funerali di Berlinguer ed è di lui che soprattutto si parla, di quando c'era e della sua assenza.

Per me, che appartengo a quell'area politica, leggere questo romanzo-racconto-saggio-diario (non so come classificarlo) è stato molto interessante, anche perché sono nata insieme alla nascita politica di Silvio Berlusconi e di molti fatti narrati in queste pagine non ne sapevo davvero tanto. Alla fine ho avuto un ritratto onesto e sincero di alcuni decenni della storia italiana: del colera, del terremoto dell'Irpinia, ma soprattutto della politica, della "nostra" sinistra, dei gloriosi inizi con Berlinguer e dello sfacelo degli anni successivi, quando la mia parte politica ha iniziato a crogiolarsi nella propria bellezza e purezza, ha iniziato a chiudersi in stanze piene di specchi, ad ammirarsi, fino a che ha sviluppato una vera e propria passione per le sconfitte, anche nei momenti in cui sembrano altamente improbabili.

Il ritratto che fa di Berlinguer Francesco Piccolo è un ritratto che in parte si discosta da quello che avevo in mente io. Per me era un uomo onesto, certo, un politico lungimirante, uno di cui tutti si fidavano, però non facevo del compromesso il suo tratto distintivo. Invece Piccolo dice che Berlinguer era l'uomo del compromesso e certamente (posto che la storia non si fa con i se) se quel compromesso storico con la Dc di Moro si fosse compiuto, se si fosse realizzata quell'alternativa democratica che tanto stava a cuore all'amato segretario del Pci, allora le cose sarebbero state completamente diverse, anche in tutti i decenni successivi, quelli poi diventati di Andreotti, Craxi e Berlusconi.

Sostiene Francesco Piccolo che dopo la morte di Berlinguer abbia fatto comodo tramandare di lui l'immagine dell'ultimo periodo, quella di un partito isolato, staccato dagli altri, perché dagli altri diverso, migliore. Quella svolta di chiusura fu inevitabile dopo l'uccisione di Moro, a Berlinguer mancava l'interlocutore, non poteva far altro che tornare indietro e proteggere il suo gruppo, la sua morale, anche se quell'atteggiamento, secondo Piccolo, fu soltanto un ripiego obbligatorio che il segretario del Pci dovette a malincuore mettere in atto, ma la prima idea di Berlinguer, quella in cui credeva davvero, quella per cui aveva speso anni di lavoro, era il compromesso storico. Mirava solo a quello, a far entrare i comunisti al governo, gradualmente, per rendersi importanti e influenti nelle decisioni e nei provvedimenti. Fuori, in un recinto di idee pure e bellissime, dove non si faceva altro che sottolineare quanto la politica tutta, tranne quella comunista, fosse sbagliata e corrotta, il Pci non serviva a niente, non dal punto di vista legislativo. Certo faceva opposizione, puntava il dito, sbandierava una giustissima questione morale, ma non era parte attiva delle decisioni che si prendevano, non era un partito di governo, cosa che invece Berlinguer auspicava nel profondo.



Quando muore Berlinguer Piccolo ha vent'anni e ai funerali non ci va, li segue col pugno alzato dalla sua camera. Sente nitidamente che quello è un momento di non ritorno, qualcosa si è spezzato per sempre, in Italia e in particolare nella sua (nostra) sinistra.



Quando, dieci anni dopo, scende in campo Silvio Berlusconi. tutti i postcomunisti sono così tanto presi dal considerarsi mille volte migliori di quel farabutto erede di Craxi da non impegnarsi più di tanto nella campagna elettorale, perché gli italiani non potrebbero mai votare un tipo del genere. No, certo. Infatti vince. È una sorpresa, un mezzo choc, l'uomo nuovo è al governo e la sinistra fa da spettatrice, felicemente sconfitta, orgogliosa della sua bellissima diversità. Per fortuna ci pensa Bossi a far cadere quel primo governo Berlusconi, si torna a votare e lì, è quasi incredibile a dirsi, il centro sinistra (L'Ulivo) vince. Prodi diventa primo ministro, con l'appoggio di Rifondazione Comunista di Bertinotti, per un po' va tutto bene, insieme varano decreti importanti, Piccolo è molto soddisfatto, come immagino fosse soddisfatto mio padre e tutto il popolo di sinistra, ma dura poco. Ci pensa Bertinotti a richiudere i "comunisti" in un angolo di purezza dove non ci si piega, dove non si scende a compromessi. Pronuncia un discorso che Francesco Piccolo ascolta con terrore, pentendosi amaramente di aver dato, col suo voto, il potere a Bertinotti di fare quello che sta facendo. Prodi cade e D'Alema dà il colpo di grazia a una sinistra già allo stremo, alleandosi con Cossiga, senza pensarci troppo su. Da tutti questi pasticci nascerà un lungo governo Berlusconi.



Il racconto di Piccolo si ferma, più o meno, qui. Non c'è il secondo tentativo di Prodi, non ci sono Monti, Letta, non c'è Bersani, non c'è Grillo, non c'è nemmeno Renzi. Può darsi non ci sia proprio più una sinistra di cui parlare, in questo periodo mi sento particolarmente disfattista, proprio io, che una vita pura come quella di Piccolo e Berlinguer non l'ho mai avuta; io, che ho visto solo una politica con Berlusconi.



Può darsi che questo libro vincitore dello Strega possa piacere solo a chi appartiene, come me, all'area politica della sinistra, ma io lo consiglio a tutti, di qualunque schieramento, purché abbiano a cuore la politica e l'Italia.



Intanto io mi sono segnata alcune letture/film che Piccolo cita più e più volte nella sua opera e che spero di leggere /vedere presto (in grassetto quelli che ho già visto):




  • Con tanta di quell'acqua a due passi da casa, in America oggi, di Raymond Carver; 

  • America oggi, film di Robert Altman sui racconti di Carver;

  • Come eravamo, film di Pollack;

  • La terrazza, film di Ettore Scola;

  • Buongiorno notte, film di Bellocchio;

  • I taccuini, di Fitzegerald;

  • Come le dita della mano, di Eric Rochant;

  • Il caimano, film di Nanni Moretti;

  • Il dormiglione, film di Woody Allen;

  • La promessa, di Friedrich Durrenmatt.








Un'epoca - quella in cui si vive - non si respinge, si può soltanto accoglierla.









Sempre di domenica #33







1- Cartoonbombing – When an illustrator inserts his creations into real life… Lui si chiama Troqman e vive ad Amsterdam, guardate anche il suo profilo Instagram per rendervi conto di quanto sia "semplice" e immediata la sua arte. Mi piace molto!


2- Hari & Deepti, due artisti che creano fantastici paesaggi sfruttando i giochi combinati di carta e luci.


3- Oggetti d'uso quotidiano che diventano personaggi. Gilbert Legrand è così bravo a dipingere sopra oggetti qualunque, che a volte si fatica perfino a distinguerli. Qui il suo sito.


4- Pictures by James Chapman. Che suoni hanno i fumetti nelle altre lingue? E che versi fanno gli animali fuori dall'Italia?


5- Photographer recreates famous portraits with John Malkovich as his model.Sandro Miller riproduce con le sue fotografie vecchie foto storiche che hanno ispirato il suo lavoro e la sua vita. [Grazie ad Alenixedda che mi ha passato questo link!]


Scarabocchi di creatività // Cactus amigurumi [Free pattern]


Oggi vi do un'idea dell'accurata ricerca che ho fatto per arrivare a creare una composizione di piantine grasse per il compleanno di mia sorella. Ah sì, quelle che ho raccolto qui sono solo quelle con gli schemi non a pagamento.




Schemi:   1   //   2 (in italiano)   //   3   //   4   //   5   //   6




Free Pattern




Schemi:   1   //   2   //   3   //   4




Schemi:   1   //   2   //   3   //   4






Schemi tutti in italiano:   1   //   2   //   3   //   4   //   5   //   6   //   7   //   8   //   9




Schemi tutti in italiano: 1   //   2   //   3   //   4   //   5






































In questo mese - Settembre 2014


Jovanotti, Totti, Bersani, Berlusconi, Sheva ♥, la zietta Maris, la mia cuginetta preferita, mio padre, mia sorella, la mia miglior nemica, la Martola, Google, Elio Germano ♥♥, io. Che cosa abbiamo in comune? Siamo tutti settembrini. Se mi vedete piena di ciccia e brufoli ora sapete perché: quello appena finito è stato un mese pieno zeppo di torte di compleanno! Ci vado a nozze, golosona come sono.

Ma certo non è stato solo questo.




Libri




- Sanditon di Jane Austen, molto evitabile.


- Nessuno sa di noi di Simona Sparaco, bellissimo e commovente.


- Il nero e l'argento di Paolo Giordano, diverso da come me lo aspettavo, ma sempre piacevole.







Film



- Allacciate le cinture, di un'inaspettata bellezza e sensibilità. 


- Che bella giornata, ancora una volta. Checco Zalone è uno dei pochi che mi fa ridere quasi ininterrottamente.


- Patch Adams, che non avevo ancora mai visto e che mi è piaciuto davvero un sacco. Volevo essere un Patch Adams anch'io una volta, sognavo un camice bianco e un naso rosso, avrei voluto essere così, com'è Robin Williams nel film. Un film bellissimo, toccante, profondo, commovente.


- Colpa delle stelle, da cui mi aspettavo grandi pianti e invece niente, non mi è scesa nemmeno una piccola lacrimuccia. Ok, è una storia per adolescenti e probabilmente a 16 anni mi avrebbe fatto tutto un altro effetto, ma dall'alto dei miei 23 anni in scadenza mi è sembrato solo un goffo tentativo di far piangere dando un'idea piuttosto rosea, tutto sommato, della malattia. O magari sono solo io che ho visto malati terminali un po' diversi da quei due e che, senza dubbio, anche volendo il giro del mondo non l'avrebbero mai potuto fare.




Fiction e serie tv


- Squadra antimafia 6, la mia fiction preferita in assoluto. Trovo che Giulia Michelini sia una delle migliori giovani attrici italiane e sarà solo grazie alla sua bravura se un lunedì sera, molto probabilmente, mi ritroverò a piangere per la morte della sua Rosy Abate, l'ex supermafiosa regina di Palermo.

- I Cesaroni, ormai li continuo a guardare per inerzia, ma sono lontani i tempi in cui c'andavo pazza. Sempre meglio questa serie di quella precedente che sembrava una rivisitazione di Cenerentola al contrario. La sigla però l'hanno fatta proprio brutta e "moscia" e poi senza Ezio mi manca un pezzo di cuore.

- Un'altra vita, prima stagione. L'ho iniziata a guardare con la mamma e con la mamma continuo, anche se non mi appassiona un granché.

- Che dio c'aiuti 3, l'unica fiction religiosa che mi piace!

- Gossip girl. L'ho iniziata spinta dalle amiche e la metto come sottofondo dei miei lavoretti di carta e gomitoli, per il momento sono a metà della seconda serie e nutro un certo interesse per il padre di Dan Humphrey. A parte questo credo che Jenny sia il mio personaggio preferito, ma staremo a vedere le evoluzioni!



3 Canzoni 



1) L'unica dei Perturbazione, in grande rispolvero dopo il Sanremo di qualche mese fa. Mi è tornata in mente e adesso è ancora lì, non se ne va!


2) L'amore non esiste, del trio Fabi-Silvestri-Gazzè. 


[...] L'amore non esiste,ma esistiamo io e te e la nostra ribellione alla statistica, un abbraccio per proteggerci dal vento, l'illusione di competere col tempo. Io non ho la religiosa accettazione della fine, potessimo trovare altri sinonimi del bene...l'amore non esiste, esistiamo io e te...


3) La tartaruga di Bruno Lauzi, trovata cercando qualche canzoncina per la mia nipotina. È stato amore a primo ascolto!



Acquisti e regali 



- 22/11/'63 di Stephen King.


- Un morbidosissimo e caldissimo giacchetto rosso, non vedo l'ora che venga l'inverno!


- Scarpe da ginnastica nere.


- Un maglioncino bianco e nero molto molto carino! 


- Una copertina rosa con cui ci girerei per casa ogni secondo, perché mi fa sentire supercoccolata.





Cose creative



Ho prodotto pochino, a parte tre biglietti d'auguri e una composizione di piantine grasse amigurumi di cui presto vi darò un'idea nella mia nuova "rubrica" del blog Scarabocchi di creatività.




Sperimentazioni in cucina




- Torta rustica estiva di Anna Moroni, provata due volte: la prima è stata un successone, la seconda una disfatta.


- Crema al cioccolato fondente, trovata sul numero di Settembre di Più Dolci.



- Fiorellini di frolla salati, belli erano belli, ma le cose buone sono un'altra cosa per me.




3 propositi per ottobre



1) Cucire qualcosa.


2) Produrre un amigurumi innamoratissimo per una coppia che a ottobre diventerà d'oro, una coppia piena d'amore, bellissima, meravigliosa. Quella a cui mi vorrei ispirare io.


3) Mantenere la calma, moooolta calma. So di aver bisogno di mettere nero su bianco questo punto.



Fotografie