Il ragazzo selvatico, frasi [Paolo Cognetti]









Qualche anno fa ho avuto un inverno difficile. Ora non mi pare importante ricordare l’origine di quel male. Avevo trent'anni e mi sentivo senza forze, sperduto e sfiduciato come quando un’impresa in cui hai creduto finisce miseramente. Un lavoro, una storia d’amore, un progetto condiviso con altre persone, un libro che ha richiesto anni di fatica. In quel momento immaginare il futuro mi sembrava un’ipotesi remota quanto quella di mettersi in viaggio quando hai la febbre, fuori piove e la macchina è in riserva sparata. Avevo dato molto, e dove stava la mia ricompensa? Passavo il tempo tra librerie, negozi di ferramenta, l’osteria davanti a casa e il letto, a contemplare il cielo bianco di Milano dal lucernario. Soprattutto non scrivevo, che per me è come non dormire o non mangiare: era un vuoto che non avevo mai sperimentato.



Il giovane uomo urbano che ero diventato mi sembrava l’esatto contrario di quel ragazzo selvatico, così nacque in me il desiderio di andare a cercarlo. Non era tanto un bisogno di partire, quanto di tornare; non di scoprire una parte sconosciuta di me quanto di ritrovarne una antica e profonda, che sentivo di avere perduto.



Con la fine del Novecento arrivò anche quella del vecchio albergo: venduto, demolito e ricostruito per farne un condominio. Così di quel luogo, come scriveva Mario Rigoni Stern, “sono rimaste ora solamente queste mie parole”.



Avevo bisogno di ripetermi una cosa molto semplice: che il paesaggio intorno a me, dall'aspetto così autentico e selvaggio, fatto di alberi, prati, torrenti e sassi, era in realtà il prodotto di molti secoli di lavoro umano, era un paesaggio artificiale tanto quanto quello di città. Senza l’uomo, niente lassù avrebbe avuto la forma che aveva. Nemmeno il ruscello né certi alberi maestosi. Perfino il pascolo in cui mi sdraiavo al sole sarebbe stato un bosco fitto, reso impenetrabile da tronchi e rami caduti, dai massi coperti di muschio e un sottobosco folto di ginepro, mirtillo e radici intricate.



A volte mi chiedevo: ci sarà stata davvero un’epoca in cui Fontane era un villaggio abitato? Facevo fatica a immaginarla, in montagna vedevo solo ruderi da quando ero bambino. Avevo l’impressione che il presente, lassù, da molto tempo fosse un mucchio di cocci che non era più possibile rimettere insieme. Potevi solo girarteli tra le mani e indovinare a cos'erano serviti, come mi capitava smuovendo una pietra e trovandoci sotto un manico di legno, un grosso chiodo ritorto, un groviglio di fil di ferro.



Il 29 giugno, San Pietro, patrono degli alpeggi, dopo cena salimmo insieme fino alla stalla.



Ho anche provato a scrivere un racconto su di lui. Ma come succedeva in quella storia, c’era un problema insormontabile nel nostro rapporto: io non ero suo figlio, lui non era mio padre. Quando alla fine di una scalata ce ne andavamo ognuno per conto suo, io per qualche giorno provavo a parlare come lui (poco), camminare come lui (con leggerezza, quasi senza peso), avere il suo stesso atteggiamento di fronte al pericolo, tipo un temporale in parete (fischiettare). Lui invece, appena io non c’ero più, ripartiva con qualcun altro. Non che non mi volesse bene, ma quello era il suo mestiere: lui aveva bisogno di clienti, io di un maestro. Soffrivo di questo squilibrio come di un amore non corrisposto.



Mai tornare dove sei stato felice, dicono i saggi, però dà un certo conforto sapere che i tuoi ricordi sono lontani solo un paio d’ore a piedi.



Mi sentivo sfiduciato e sciocco, trascinato fin lì da un gioco insulso: perdermi per vedere se ero in grado di ritrovare la strada, scappare lontano da tutti per cullarmi nella nostalgia. Ero andato in montagna con l’idea che a un certo punto, resistendo abbastanza a lungo, mi sarei trasformato in qualcun altro, e la trasformazione sarebbe stata irreversibile: invece il mio vecchio nemico spuntava fuori ogni volta più forte di prima.



Mi turba la sua indifferenza alle stagioni, perché una pianta sempreverde è come un volto che non cambia espressione.



A quattordici anni aveva cominciato a fare il muratore con suo padre. Preferiva il lavoro alla scuola, ma aveva un carattere riflessivo e a un certo punto si era accorto di un grave limite: le parole che conosceva non gli bastavano per dire come stava. Mi fermai. Camminavamo nel bosco di settembre senza incontrare nessuno. In che senso?, gli chiesi incuriosito. Nel senso, mi spiegò Remigio, che aveva sempre parlato in dialetto, e il dialetto ha un lessico ricco e preciso per indicare i luoghi, gli attrezzi, i lavori, le parti della casa, le piante, gli animali, ma diventa improvvisamente povero e vago se si tratta di sentimenti. Lo sai come si dice quando sei triste?, mi chiese. Si dice: mi sembra lungo. Cioè il tempo. È il tempo che quando sei triste non passa mai. Ma l’espressione va bene anche per quando soffri di nostalgia, quando ti senti solo, quando non riesci a dormire, quando non ti piace più la vita che fai. Remigio a un certo punto decise che quelle tre parole non gli bastavano, gliene servivano di nuove per dire come stava, e si mise a cercarle nei libri. Per questo era diventato un lettore così vorace. Cercava le parole che gli parlassero di sé.



Potevamo farci il bagno in un lago, nutrirci di lamponi e mirtilli, dormire in un prato, ma i selvatici fuggivano al nostro passaggio e ci ricordavano che non eravamo come loro, non lo saremmo mai stati.



La facevo anche da bambino questa cosa, un ultimo giro per salutare la montagna. Scrivevo dei biglietti e li nascondevo nelle rocce spaccate, nelle fessure delle cortecce. Così le mie parole sarebbero restate lì anche dopo di me: proprio come questo libro.

Era tempo di tornare giù. Conoscevo già tutti i sogni che avrei fatto d’inverno.

Il ragazzo selvatico - Quaderno di montagna, Paolo Cognetti


«Andai nei boschi perché volevo vivere secondo i miei principi, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, per vedere se fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, di non avere vissuto. Non volevo vivere quella che non era una vita, né fare pratica di rassegnazione prima del necessario. Volevo vivere profondamente e succhiare tutto il midollo della vita, vivere in modo vigoroso e spartano e distruggere tutto ciò che non era vita, falciarlo via con ampie bracciate radenti al suolo, chiudere la vita in un angolo e ridurla ai suoi minimi termini. E se si fosse rivelata miserabile, volevo trarne tutta la genuina miseria e mostrarla al mondo; se invece fosse stata sublime, volevo conoscerla con l’esperienza e renderne conto nella mia narrazione»


[Thoreau] 





Per la seconda estate consecutiva eccomi alle prese con Paolo Cognetti. L'anno scorso c'era Sofia che si vestiva sempre di nero, quest'anno c'è proprio lui, l'autore, che si cimenta nella scrittura di un quaderno di montagna, in cui parla di sé, della sua crisi da trentenne, della sua decisione di lasciare la frenesia della città, in cui non riesce più a scrivere, e di tornare lassù dove passava le sue estati da ragazzo. Lassù, in una baita alpina a duemila metri d'altezza, da solo.

Lasciare la civiltà e ritrovarsi selvatico, in mezzo alla natura, tra i larici e le marmotte, su su per i sentieri dei camosci, tra le nuvole, quasi fino a toccare il cielo. Selvatico, sì, libero, pure. È solo, con i libri, le parole che tornano a scorrere tra le mani, i ricordi delle montagne passate, i respiri profondi in mezzo all'aria pulita delle Alpi.



C'è la solitudine, la libertà. C'è la paura, c'è il tentativo di districarsi tra la nebbia di un futuro incerto. C'è la semplicità dei lavori manuali, le legne da spaccare, l'orto da preparare, le mucche da mungere. Un ritorno al passato per riuscire a rivedere il proprio futuro.

Temevo che questo quaderno/diario di montagna sarebbe stata una lettura noiosa, invece mi ha appassionata, sarà che mi piace lo scrittore o sarà che, pur non essendo una ragazza di montagna, ma solo di campagna, sono anch'io piuttosto selvatica. Sarà che qualche anno fa ho smesso di sognare la città, perché mi sento a mio agio qui, con il cinguettio degli uccellini in sottofondo, con i pomodori da far crescere, con l'erba da tagliare e i fiori da veder sbocciare. Sto bene qui, in un silenzio che lascia spazio per pensare, per ascoltare, per chiacchierare con la gente che si incontra per strada. Con poche opportunità, questo è vero, ma senza fretta e con una pace che altrove certo non avrei.

Questa sarà una lettura che piacerà di sicuro a tutti gli animi selvatici, come il mio.







Oltretutto de Il ragazzo selvatico ho apprezzato molto anche i vari testi citati dall'autore, che vorrei riportare qui.



La mia prima estate sulla Sierra, di John Muir.

Storia di una montagna, di Elisée Reclus.


Il pastore mio compagno, unico rappresentante dell’umanità da cui fuggivo, m’era divenuto poco a poco necessario; sentivo nascere verso di lui fiducia e amicizia. Non mi limitavo più a ringraziarlo del cibo che mi portava e dei servigi che mi rendeva, ma lo studiavo cercando di imparare ciò che aveva da insegnarmi. La sua istruzione era ben poca cosa, ma quando l’amore per la natura si fu impadronito di me, fu lui a farmi conoscere la montagna dove pascolavano le sue greggi, alle cui falde era nato. Mi disse il nome delle piante, mi mostrò le rocce in cui si trovavano i cristalli e le pietre rare, mi accompagnò sulle cornici vertiginose dei baratri per indicarmi la via da prendere nei passaggi difficili. Dall'alto delle vette mi indicava le valli, mi tracciava il corso dei torrrenti; poi, di ritorno alla nostra capanna annerita dal fumo, mi raccontava le storie del paese e le leggende locali.

Into the wild, di Jon Krakauer.

Grande fiume dai due cuori, di Hemingway.

Walden, di Henry David Thoreau, da cui è tratto questo pensiero sul campo di fagioli:


Che cosa significasse questa regolare, orgogliosa, piccola fatica d’Ercole, io non lo sapevo. Giunsi ad amare i miei filari, i miei fagioli, benché fossero molti più di quelli che mi servivano. Mi attaccavano alla terra, e così ne ricevevo forza. Ma perché dovevo coltivarli? Solo il cielo lo sa. Questo fu il mio curioso lavoro per tutta l’estate: fare che quella porzione di superficie terrestre, che prima aveva dato solo trifogli, more, piante infestanti, dolci frutti di bosco e fiori gentili, producesse invece legumi. Che cosa avrei imparato dai fagioli, o i fagioli da me? Li avrei curati, li avrei protetti dalle erbacce, sarei tornato a guardarli a tutte le ore, e questo sarebbe stato il mio lavoro quotidiano.

E quest'altra riflessione, che sento molto molto mia.


Trovo sia salutare restare soli la maggior parte del tempo. La compagnia, anche delle persone migliori, risulta ben presto insopportabile e dispersiva. Amo stare da solo. Non ho mai trovato un compagno più intimo della solitudine. Molti di noi sono più soli in mezzo agli altri che quando se ne stanno nella loro stanza. Un uomo che pensa o lavora è sempre solo; lasciatelo dove sta. La solitudine non è misurata dalle miglia di distanza tra un uomo e il suo prossimo.La compagnia di solito è cosa da poco. Ci incontriamo troppo spesso, senza avere il tempo di acquisire nuovo valore uno per l’altro. Ci incontriamo ai pasti tre volte al giorno, e offriamo all'altro un nuovo assaggio di quel vecchio formaggio ammuffito che siamo. Dobbiamo accordarci su una serie di regole, chiamate educazione e cortesia, per rendere tollerabili questi frequenti incontri, ed evitare di dichiararci guerra a vicenda. Ci incontriamo in posta, alle assemblee e davanti al camino; viviamo ammassati, ci intralciamo e inciampiamo uno nell'altro; e in questo modo perdiamo il rispetto reciproco.Ho sentito di un uomo che si perse nei boschi e stava morendo di stanchezza e di fame ai piedi di un albero, la cui solitudine ricevette sollievo dalle grottesche visioni con le quali, per la debolezza del corpo, la sua immaginazione malata lo circondava, e che egli credeva reali. Anche noi, forti nel corpo e nella mente, possiamo essere accolti da una compagnia simile, quella della natura, e scoprire che non siamo mai soli.

Il sistema periodico, di Primo Levi.


Mi trascinava in estenuanti cavalcate nella neve fresca, lontano da ogni traccia umana, seguendo itinerari che sembrava intuire come un selvaggio. D’estate, di rifugio in rifugio, a ubriacarci di sole, di fatica e di vento, e a limarci la pelle dei polpastrelli su roccia mai prima toccata da mano d’uomo: ma non sulle cime famose, né alla ricerca dell’impresa memorabile; di questo non gli importava proprio niente. Gli importava conoscere i suoi limiti, misurarsi e migliorarsi; più oscuramente, sentiva il bisogno di prepararsi (e di prepararmi) per un avvenire di ferro, di mese in mese più vicino.

Vedere Sandro in montagna riconciliava col mondo, e faceva dimenticare l’incubo che gravava sull'Europa. Era il suo luogo, quello per cui era fatto, come le marmotte di cui imitava il fischio e il grifo: in montagna diventava felice, di una felicità silenziosa e contagiosa, come una luce che si accenda. Suscitava in me una comunione nuova con la terra e il cielo, in cui confluivano il mio bisogno di libertà, la pienezza delle forze, e la fame di capire le cose che mi avevano spinto alla chimica. Uscivamo all'aurora, strofinandoci gli occhi, dalla portina del bivacco, ed ecco tutto intorno, appena toccate dal sole, le montagne candide e brune, nuove come create nella notte appena svanita, e insieme innumerabilmente antiche.


E al locandiere, che ci chiedeva ridacchiando come ce l’eravamo passata, e intanto sogguardava i nostri visi stralunati, rispondemmo sfrontatamente che avevamo fatto un’ottima gita, pagammo il conto e ce ne andammo con dignità. Era questa, la carne dell’orso: ed ora, che sono passati molti anni, rimpiango di averne mangiata poca, poiché, di tutto quanto la vita mi ha dato di buono, nulla ha avuto, neppure alla lontana, il sapore di quella carne, che è il sapore di essere forti e liberi, liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino.

Poesie di montagna, di Antonia Pozzi.

Le vite dell'altipiano. Racconti di uomini, boschi e animali, di Rigoni Stern.


Mario Rigoni Stern diceva che, delle stagioni, quella che gli piaceva meno era l’estate, perché la vita si nasconde all'uomo ed è come assente, mentre amava l’autunno che ci spinge di nuovo ad affinare lo sguardo, tendere l’orecchio e ascoltare.


E una canzone di De André, Il suonatore Jones (clic).


Sentivo la mia terra vibrare di suoni, era il mio cuore e allora perché coltivarla ancora, come pensarla migliore. 
Libertà l'ho vista dormire nei campi coltivati a cielo e denaro, a cielo ed amore, protetta da un filo spinato. 
Libertà l'ho vista svegliarsi ogni volta che ho suonato per un fruscio di ragazze a un ballo, per un compagno ubriaco.

E poi un film di Giorgio Diritti, Il vento fa il suo giro.


Amore, ecc., frasi [Julian Barnes]










Ma io non ricordo. Io non voglio ricordare. La memoria è un atto volontaristico, come lo è il dimenticare. Credo di aver cancellato gran parte dei miei primi diciott'anni di vita, di averli ridotti in purea tramutandoli in innocui omogeneizzati per bambini. Cosa potrebbe esservi di peggio che lasciarsi incalzare da tutte quelle cianfrusaglie? La prima bicicletta, le prime lacrime, il vecchio orsacchiotto con un orecchio mangiucchiato. È una questione pratica, non soltanto estetica. Se ricordi troppo il tuo passato, finisci di conseguenza per deplorare il tuo presente. Basta guardare quello che è capitato a me, ecco perché mi sono ridotto così, la colpa non è mia. Permettetemi di correggervi: probabilmente è colpa vostra. E, di grazia, risparmiatemi i dettagli.



Ognuno di noi è solo e sempre colui che finge di essere.



Io non dispongo di quello che comunemente viene definito un carattere estroverso. Quando mi capita di conoscere persone di mio gusto, anziché dire di più e fare domande e dimostrargli che mi sono simpatiche, io mi chiudo come un riccio, ammutolisco come se mi aspettassi di essere loro antipatico o di non essere abbastanza interessante. E così, ovviamente, non mi trovavo abbastanza interessante. E la volta successiva io me ne ricordo, ma invece di trovare la determinazione necessaria per comportarmi meglio, sono di nuovo completamente bloccato. Mezza umanità sembra sicura di sé, l'altra metà si comporta in modo opposto, e io non so come si riesca a fare il salto da una metà a quell'altra. Per dar prova di sicurezza bisogna essere a priori sicuri e fiduciosi: non è altro che un circolo vizioso.



Ma poi è comparsa Gillian, e tutto comincia qui. Tutto comincia adesso.

Adesso. È una parola che mi piace. Adesso è adesso.

Non è più allora. Niente affatto. Allora se n'è andato. Non importa che abbia deluso i miei. Non importa che abbia deluso me stesso. Non importa che non mi riuscisse di farmi capire dagli altri. Questo accadeva allora, e allora non c'è più. Adesso è soltanto adesso.



Non si capisce mai con esattezza quale sia il momento in cui ci si innamora di qualcuno; non è vero, forse? Non esiste quel momento improvviso in cui la musica cessa e ci si guarda negli occhi per la prima volta, o cose di questo genere. Be', può darsi che per certa gente le cose funzionino così, ma sicuramente non per me.



L'amore piace più del matrimonio come i romanzi divertono più della storia.



Ho sorriso e l'ho baciato. Più tardi, ho riflettuto: ma se due uomini totalmente diversi fra loro come Oliver e Stuart possono entrambi innamorarsi di me, quale me io sarò mai? E quale me può innamorarsi prima di Stuart, poi di Oliver? La stessa me, oppure un'altra?



È intelligente, non l'ho mai negato, ma non abbastanza per capire che non basta.